Evelyne Samama: La médicine de guerre en Grèce ancienne (= De Diversis Artibus; Tome 98), Turnhout: Brepols 2017, 588 S., ISBN 978-2-503-56645-0, EUR 90,00
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Il ponderoso e interessantissimo volume di Evelyne Samama si pone l'obbiettivo di prendere in esame un aspetto della medicina greca poco o per nulla trattato: la medicina militare, finora oggetto di attenzione solo per il mondo romano che vide la nascita dei valetudinaria.
La quasi totale assenza di studi impone all'Autrice un'analisi a tutto campo che si snoda in ben 35 capitoli divisi in una sezione introduttiva (capitoli I-II); una prima parte (capitoli III-XX); una seconda parte (capitoli XXI-XXXV). Lasciando da parte il contenuto dei singoli capitoli, per il quale rimando agli indici, mi soffermo sull'organizzazione della ricerca e sui punti più importanti e innovativi trattati dall'Autrice.
In mancanza di una documentazione chiara ed esaustiva sul tema - gran parte delle fonti riportano dati, non sempre veritieri, sulle vittime di guerra, ma non sui feriti, su chi li curava, sul numero dei sopravvissuti, su quanti invece perivano a distanza di tempo per i danni riportati - l'Autrice cerca di ricavare le informazioni necessarie analizzando battaglie, assedi, preparativi di guerra, tipi di armi (frecce, giavellotti, pietre, spade ecc.) e di ferite, che potevano infliggere, ma anche indagando la dieta e quindi il complessivo stato di salute delle truppe, alle quali non dovevano mai mancare grano, aceto, vino, sale e acqua. Solo in un secondo momento affronta temi legati più direttamente alla medicina, come le epidemie e le malattie che con maggiore incidenza colpivano le truppe (capitolo XV).
Di un volume ricchissimo nel quale l'Autrice, con estrema competenza, riesce a presentare e padroneggiare un gran numero di dati provenienti per lo più da fonti letterarie, ma anche una bibliografia ricchissima e aggiornata, non è pensabile presentare tutti i temi trattati. Tra i tanti episodi - che in molti casi possono rappresentare anche delle curiosità - figurano, ad esempio, la preparazione di pillole energetiche, surrogato del cibo, in caso di assedio: avrebbero sostenuto gli assediati contro il rischio della fame (130); o ancora le vipere utilizzate nel 191 a.C. da Antioco il Grande nella guerra contro Eumene re di Pergamo (133), secondo uno stratagemma di guerra che non sarebbe rimasto isolato. Delle ferite di guerra l'Autrice prende in considerazione analiticamente quelle a carico degli occhi e della testa, del ventre, delle gambe: molte di esse erano mortali. Malattie ed epidemie - evidenzia l'Autrice passando in rassegna numerosissimi episodi - potevano essere determinati dalle marce forzate, dalla scarsezza di cibo, dalle condizioni climatiche estreme (grande freddo, grande caldo), dalle precarie condizioni igieniche che i continui spostamenti e la vita di campo necessariamente imponevano.
Se le ferite e, complessivamente, i problemi di salute dei soldati potevano nuocere alle sorti delle guerre determinando in molti casi successi e sconfitte, a maggior ragione poteva essere determinante lo stato di salute dei capi. Anche di questa categoria, strettamente legata alla prima, l'Autrice presenta un'ampia gamma di esempi tra i quali emerge con forza - se non altro per la fama del personaggio - la figura di Alessandro Magno (capitolo XVI).
Se l'arte di cui erano depositari imponeva ai medici di curare i pazienti, non sono pochi i casi nei quali essi utilizzarono le loro conoscenze in forma diabolica trasformando i medicamenti in veleni (capitolo XIX). Questa procedura non mancò di essere impiegata su larga scala: in questo caso l'avvelenamento di bevande, dell'acqua corrente, di cibi era lo strumento più efficace per sbarazzarsi del nemico ed evitare lo scontro in battaglia (capitolo XX).
Di medici veri e propri, del loro ruolo - medici cittadini, medici militari - delle loro funzioni l'Autrice si occupa più nello specifico nella seconda parte del volume anch'essa ricchissima di dati. Vi emergono le figure di quei i medici che accompagnarono le truppe ateniesi nella spedizione in Sicilia (350-351); che figurano negli scritti di Senofonte (351-354); che seguirono l'esercito di Alessandro Magno in Asia (354-355); che furono al servizio dei sovrani di epoca ellenistica (355-359).
Anche se della maggior parte di essi le fonti non ricordano i nomi, tuttavia in molti casi ne menzionano le cure sui soldati feriti: si trattava per lo più di interventi finalizzati a estrarre proiettili (372-381); frenare le emorragie (381-385); disinfettare e far cicatrizzare le ferite (386-389); ridurre le fratture (425-433); amputare arti feriti (449-451); arrestare il contagio di malattie epidemiche (461-466). In molti casi - ed è questa una parte interessantissima del volume (capitolo XXV) - essi non mancavano di ricorrere ad analgesici e anestetici a base di piante come il papavero / oppio, la mandragora, il giusquiamo, la cicuta al fine di attenuare i dolori dei pazienti.
Un mondo parallelo, quello ricostruito dall'Autrice, che del campo militare e dell'agone bellico pone in evidenza non tanto l'eroe quanto il paziente-soldato e/o il paziente-re, le sue ferite in battaglia, le possibilità di una guarigione parziale o completa. Protagonista assoluto di questa pagina di storia è il medico con le sue conoscenze, i suoi strumenti di cura, le sue terapie più o meno dolci, più o meno invasive: una medicina militare che, sebbene in molti casi sia posta ai margini o completamente trascurata dalle fonti, tuttavia veniva esercitata tra le truppe da medici più o meno capaci, più o meno noti, in situazioni diverse, con strumenti e sistemi di cura disparati. Una professione, questa, non meno nobile e importante di altre funzionali alla guerra. Lo evidenzia con chiarezza uno storico attento come Senofonte che - sottolinea l'Autrice nelle sue conclusioni (514) - poneva su un piano di assoluta parità all'interno di un conflitto l'azione di chi si occupava di strategia e l'opera di quanti, invece, mettevano la loro arte al servizio della salute delle truppe (Ciropedia I 6,14).
Giuseppe Squillace