Miri Rubin (ed.): Modus Vivendi. Religious Reform and the Laity in Late Medieval Europe (= Viella Historical Research; 19), Roma: Viella 2020, 148 S., ISBN 978-88-331-3706-3, EUR 39,00
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Roberto Rusconi: Immagini dei predicatori e della predicazione in Italia alla fine del Medioevo, Spoleto: Fondazione Centro Italiano di Studi sull'alto Medioevo 2016
L'aspirazione verso una riforma religiosa, con l'implicita competizione per definirne il modello ideale, è tra gli aspetti più caratteristici degli ultimi secoli dell'Europa medievale, quantomeno in occidente. Superate ormai con decisione le letture teleologiche di tale fenomeno, negli ultimi decenni la storiografia si è addentrata sempre più nell'analisi di un'epoca dinamica e inquieta, segnata anche dal progressivo ampliamento della partecipazione dei laici nella ridefinizione (teorica e pratica) dei modelli di vita cristiani, del modus vivendi.
Il volume curato da Miri Rubin offre uno spaccato dell'attuale campo di indagine attraverso il lavoro di sette studiosi che accompagnano il lettore lungo un percorso che, pur non offrendo un quadro organico, si caratterizza tuttavia per la ricchezza delle fonti e la varietà dei contesti indagati. Il focus degli interventi oscilla, mettendo al centro da un lato il ruolo dei laici nei processi di riforma degli ordini religiosi - o meglio, l'interazione tra laici e religiosi in tali processi, dall'altro l'impatto (reale o desiderato) sulla vita dei laici della riforma promossa dai religiosi. Si tratta evidentemente di due facce dello stesso fenomeno. Avrebbe però giovato in sede di apertura e nei singoli saggi inquadrare meglio cosa si intenda con modus vivendi, là dove invece le coordinate di fondo del discorso restano abbastanza in ombra e a tratti vaghe. [1]
Nell'introduzione (7-15), Rubin ricorda le diverse forme in cui laici e religiosi interagirono nei processi di riforma. Più in generale, sottolinea come vi fosse «a great deal of preoccupation with the purpose, depth and practice of the good Christian life» (p. 10) e come gli sforzi di riforma mirassero a formare un «pattern of feeling and practice» immediatamente rilevante nella vita quotidiana (14). Inoltre, Rubin ricorda come la tensione verso un modello di società cristiana mise in moto (o meglio, rafforzò) processi di esclusione e repressione di quanti non vi rientravano, tracciando frontiere sempre più marcate all'interno della società. Il coinvolgimento dei laici nei processi di acculturazione religiosa, se apriva nuovi spazi per una loro appropriazione (anche creativa) del sapere religioso, non fu privo di conseguenze per chi veniva giudicato inaffidabile, sospetto o irreformabile.
Nel primo contributo - uno dei più ricchi del volume - Stephen Mossman illustra come, da punti di partenza diversi, Jan Ruusbroec (†1381), Johannes Tauler (†1361) e Rulman Merwin (†1382) criticarono la teologia scolastica del tempo, difendendo la possibilità di una illuminazione divina diretta (senza la quale, la conoscenza teologica sarebbe rimasta ristretta ai soli professionisti). Paradossalmente, Ruusbroec - nei propri testi in volgare, un elemento non secondario - e Tauler svilupparono la propria posizione servendosi dei concetti più avanzati dalla teologia dell'epoca, elaborando dall'interno una diversa teoria della conoscenza. Per i due mistici, la conoscenza divina avviene a un livello unificato e più profondo di quello concettuale e un solido impianto metafisico serve loro «to guide others to spiritual perfection and beatitude, not as a subject of open-ended academic inquiry» (30). Merwin è invece un peculiare scrittore laico, attivo a Strasburgo, che rivendica un primato assoluto dell'ispirazione divina. Il suo Meisterbuch racconta l'apologo della conversione di un teologo ad opera di un laico che, gradualmente, guida il suo interlocutore a riconoscere di non avere ancora fatto esperienza di Dio. Si ha qui un'intensificazione del discorso sull'illuminazione divina (svincolata dalla stessa Scrittura) e una sua semplificazione, ponendosi non sul piano della metafisica ma del miracolo. Si esplicita inoltre il corollario ultimo di tale approccio: la possibile piena titolarità per un laico del ruolo di guida spirituale. Muovendosi da premesse distinte e da diversi livelli di elaborazione, i tre autori concordano su un punto: «the opposition to a culture of argumentative disputation by sheer assertion of an exclusive claim to express the truth» (26). Mentre si apriva uno spazio di partecipazione, si ergeva anche un muro di intransigenza.
Nel secondo contributo, Marika Räsänen indaga diverse forme del culto rivolto a san Tommaso d'Aquino (canonizzato nel 1323), mettendo in luce il coinvolgimento dei laici, come nelle sacre rappresentazioni tenute ad Orvieto. Il materiale presentato mostra lo sforzo di chi patrocinò il culto (in particolare, Elias Raymond, maestro generale dell'Ordine dei predicatori) di legare il nuovo santo alla marea montante del culto eucaristico, facendone quindi il santo del Corpus Domini. Nel saggio rimane però non chiaro cosa si intenda davvero per «emotional devotion, inspired by the model of Thomas' modus vivendi» (51).
Reima Välikämi affronta uno dei casi più interessanti del volume, analizzando l'intreccio tra strategie comunicative dell'inquisitore Peter Zwicker (†1403) e gli effetti delle sue prediche su alcuni degli ascoltatori laici, fino al caso estremo in cui la performance della risposta voluta e attesa (la conversione di una 'eretica') venne considerata dallo stesso inquisitore una messa in scena e quindi rifiutata, con conseguenze drammatiche per la protagonista. Se forse è troppo roseo il giudizio sul prevalere della dimensione pastorale rispetto a quella repressiva, il saggio illustra bene la complessità della dimensione comunicativa che accompagnava il lavoro di questo inquisitore, legandolo all'intrinseca dimensione penitenziale della predicazione coeva.
Mathilde van Dijk analizza come due maestri spirituali - il fratello della vita comune Dirc van Herxen (†1457) e Dionigi il Certosino (†1471) - presentarono con accenti diversi (Dionigi decisamente più positivo) la possibilità di una vita virtuosa e profondamente cristiana all'interno del matrimonio. Le opere di questi autori non vengono inquadrate però nel più ampio dibattito pastorale e teologico intorno a tali temi, assai vivo nel Quattrocento. Suggerendo come l'approccio più positivo di Dionigi rifletta il modo con cui «secular people were increasingly claiming their place in the economy of salvation, on the eve of the Reformation» (87), la conclusione risulta quantomeno forzata.
Il contributo di Antonín Kalous porta il lettore nella Moravia del Quattrocento, mettendo in luce alcuni elementi della pastorale promossa dall'Osservanza, in particolare a Olomouc. Il programma iconografico della chiesa dei frati minori osservanti di tale città (uno dei conventi fondati da Giovanni da Capestrano nel suo famoso tour europeo), affianca la memoria agiografica della battaglia di Belgrado (1456) e l'immagine dell'Immacolata con i misteri della Corona della Vergine, mostrando efficacemente il duplice binario - politico e pastorale - lungo il quale operavano i frati osservanti. Sempre a Olomouc, non meno rilevante risulta l'impegno dei frati predicatori, riflesso in opere come il De signis hereticorum, qui indicato come di Petr Nossek, dove l'accusa di eterodossia è rivolta non solo contro gli hussiti ma anche ad alcune forme di devozione al Nome di Gesù promosse dai discepoli di Bernardino da Siena. [2] Il confine tra ortodossia ed eterodossia era sottile, e forte era la competizione tra diversi progetti di riforma, non limitata alla contrapposizione tra cattolici e utraquisti.
Analizzando l'epistolario di Girolamo Aliotti (†1480) riguardo alla riforma del monastero di Santa Fiora ad Arezzo, Càcile Caby indaga l'intreccio tra riforma monastica e utilizzo di connotanti pratiche umanistiche, come quella dell'epistolografia. Il saggio mostra come le lettere di questo abate «must be understood as rhetorical and social tools» (110), utili non solo a promuovere l'iniziativa avviata ma anche a legittimarla, inserendola in una rete di rapporti necessaria per mobilitare il supporto amministrativo e normativo decisivo per incentivare, a livello locale, la riforma di tale monastero, presentandola quale bene della città - costruendo al contempo il profilo personale di Aliotti quale benefattore e zelante riformatore.
Nell'ultimo contributo, Meri Heinonen esplora i libri che alcune donne portarono con sà al momento dell'ingresso nel convento osservante domenicano di Norimberga, mettendo in luce come diverse di esse partecipassero già a una textual community che si nutriva, dentro e fuori le mura del convento, delle stesse letture spirituali e pratiche di meditazione. Il convento svolse la funzione di catalizzatore dei più vivaci fermenti spirituali a Norimberga e l'indagine mostra come «laity and religiosi read many of the same books» (128). L'affermazione va in parte sfumata: non si può generalizzare il comportamento di alcune donne che percorsero una traiettoria di impegno spirituale che le condurrà a entrare in convento. Emerge però uno spaccato prezioso sulle letture condivise tra laici e religiose e su un generale impatto della riforma (e produzione culturale) osservante sul panorama religioso della città.
Pur restando il limite intrinseco di una collezione di saggi senza un forte filo conduttore, il valore del volume sta nell'offrire un panorama ampio, tanto dal punto di vista geografico quanto dei personaggi menzionati, ponendo l'attenzione - e questo è un sicuro arricchimento - su figure usualmente non in primo piano, come Rulman Merwin, Dirc van Herxen, Girolamo Aliotti, Peter Zwicker, contribuendo così ad allargare il discorso sulle aspirazioni e le iniziative di riforma religiosa al di là del giro degli usual suspects.
Note:
[1] A monte del volume sta un convegno svoltosi a Roma nel 2015, parte di un progetto di ricerca - avente il medesimo titolo - finanziato dalla Finnish Accademy. Di tale gruppo di ricerca facevano parte Marika Räsänen e Reima Välikämi. Stupisce l'assenza di un intervento di Marjio Kaartinen, coordinatrice del progetto.
[2] L'attribuzione del trattato è dubbia, in quanto è stato proposto anche il nome di Václav / Wenceslaus di Krumlow. Petr Nosek sicuramente copiò quest'opera e anche le Confessiones sectarum Bohemicarum, a lui attribuite, fanno riferimento agli «errores Bernhardinorum». Maggiori informazioni su: http://antihus.eu/.
Pietro Delcorno