Jed W. Atkins: Roman Political Thought (= Key Themes in Ancient History), Cambridge: Cambridge University Press 2018, XVII + 239 S., ISBN 978-1-107-51455-3, GBP 19,99
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Questo volume di sintesi sul pensiero politico romano chiarisce sin dall'Introduzione tre delle sue principali caratteristiche: 1) è rivolto a studenti americani non tanto classicisti quanto soprattutto di scienze politiche e, più in genere, a lettori americani o, per lo meno, interessati alla cultura politica degli Stati Uniti; 2) si concentra sul periodo repubblicano, e in particolare su Cicerone, sia pure con prolungamenti in età imperiale e sino ad Agostino; 3) non è articolato per autori, come il recente D. Hammer [1] e non tenta di confrontare le idee degli uomini di cultura con la prassi degli uomini politici, come il coevo G. Zecchini [2] ma organizza la propria materia per temi.
In 7 capitoli Atkins tratta della 'costituzione' romana sulla base delle riflessioni di Polibio e Cicerone (11-36), della libertas e della partecipazione alla vita politica (37-62), della cittadinanza e delle virtù civiche o, se si preferisce, del sistema di valori che reggeva la società romana sino alla sua profonda trasformazione che si coglie nell'agostiniano De civitate Dei (63-90), della corruzione e della gratitudine (91-111), del ruolo della retorica nella vita politica romana (112-135), della religione pubblica (136-165), del bellum iustum, il cosiddetto 'imperialismo' romano e il 'cosmopolitanismo' imperiale (166-191). Seguono brevi conclusioni sull'attualità dell'esperienza politica romana (191-199).
Va subito premesso che il libro è scritto assai bene, in forma accattivante e si lascia leggere con vivo interesse. Ogni capitolo è introdotto da una breve messa a punto delle moderne posizioni sul tema: p.e. nel capitolo II si parte dalla classica bipartizione della libertà degli antichi e dei moderni in B. Constant per approdare alla distinzione tra la 'libertà negativa' di I. Berlin e la libertà ben più esigente e propositiva di pensatori 'neorepubblicani' come Q. Skinner e P. Pettit, che si rifanno esplicitamente al concetto romano di libertas; poi, al centro del capitolo, si analizza il medesimo concetto negli autori antichi; infine, con procedimento perfettamente circolare, si procede al confronto tra Romani e contemporanei: Roma antica ci dimostra che l'uguaglianza di fronte alla legge, l'esercizio del voto e i diritti individuali possono coesistere in una società paternalistica e socialmente bloccata o addirittura sotto il governo di un autocrate; d'altro lato il dibattito avvenuto nella tarda repubblica ci ammonisce che una libertà priva di partecipazione politica e di diffusione della proprietà è mutila e insufficiente.
I capitoli IV e V sono senza dubbio i più originali e sorprendenti. Come gli antichi stessi, Polibio e Sallustio in particolare, ci indicano, la corruzione nella vita politica nasce dall'avidità e dall'insoddisfazione, per cui non ci si accontenta di quanto ottenuto e si desidera sempre di più; il rimedio più efficace è indicato da pensatori epicurei come Epicuro stesso e soprattutto Lucrezio, che educano ad accettare il limite della condizione umana come una benedizione e a provare un sentimento di gratitudine nei confronti degli altri e della società: la gratitudine viene ad assumere un elevato valore politico nella misura in cui ci trattiene dall'illegalità volta a procurarci la realizzazione di ambizioni smodate. L'arte della retorica è spesso vista nel nostro tempo come l'arte di ingannare il prossimo, ma l'appassionato dibattito antico (basti pensare al tacitiano Dialogus de oratoribus) ci ricorda che l'efficacia retorica di un discorso è legata alla capacità di collegarsi a un insieme di valori etici condivisi, di persuadere svolgendo argomentazioni accettabili dalla platea, a cui ci si rivolge: tra retorica e istituzioni politiche vige quindi una stretta e non trascurabile relazione.
Data la complessità dei temi trattati c'è spazio per sollevare qualche dissenso e individuare qualche lacuna. Nel I capitolo si attribuisce a Polibio una dottrina della separazione dei poteri (24) che è, a mio avviso, una dottrina della separazione delle funzioni: stiamo attenti a non fare di Polibio un Montesquieu ante litteram; inoltre non si rileva (28) la radicale differenza tra Polibio e Cicerone sul ruolo della religione, semplice superstizione per il Greco, fondamento della repubblica per il Romano. Nel II capitolo si nega l'esistenza di diritti umani o naturali nel pensiero romano (44); non sarei così sicuro: il servi sunt, immo homines di Seneca (Ep. ad Luc. 47,1) non è citato, ma è tanto lontano dal concetto aristotelico di 'schiavo-macchina' quanto vicino al 'non c'è schiavo, né libero' di Paolo (Gal. 3,28). Nel III capitolo sarebbe stato opportuno rilevare come delle 4 virtù del De officiis ciceroniano due (virtus e iustitia) restano nel clupeus virtutum di Augusto, ma le altre due (sapientia e decorum) sono sostituite da clementia e pietas; inoltre la dialettica tra giustizia del sovrano e ossequio dei sudditi, registrata a proposito dell'Agricola di Tacito (84), si coglie già nella Vita di Attico di Nepote. Nel IV capitolo si poteva evitare (104) l'attribuzione ai Romani di una gift economy, che è un'invenzione moderna priva di riscontri nelle fonti, e stupisce che si analizzi il pensiero politico di Plutarco attraverso le Vite di Pirro e Mario e non attraverso gli opuscoli politici. Nel VI capitolo si attribuisce a Cicerone un generico scetticismo sulla divinazione (141), che riguarda in realtà solo gli aruspici, non il collegio degli auguri e quindi non la religione ufficiale, e stranamente si denomina procurator il prefetto di Giudea (148); l'intero capitolo è però ammirevole per equilibrio e lucidità di giudizio. Infine nel VII capitolo non si dovrebbe dimenticare mai che il discorso di Calgaco in Tacito (175) è solo la prima parte di un'antilogia completata dal discorso di Agricola, senza dubbio condiviso da Tacito stesso; va aggiunto che l'analisi della teoria della guerra giusta e il rilievo dato al contributo di Agostino, che non nega l'esistenza di guerre giuste, ma le priva di ogni aureola di gloria (183-4), è davvero brillante.
Il libro di Atkins è nel complesso un'eccellente sintesi tematica sul pensiero politico romano e se ne raccomanda la lettura sia come introduzione all'argomento, sia per talune singole analisi di notevole spessore critico. Dal confronto tra cultura politica romana e cultura politica liberal negli Stati Uniti di oggi si ricava che la prima era più rispettosa dell' 'altro' e meno ipocrita.
Note:
[1] Dean Hammer: Roman Political Thought. From Cicero to Augustine, Cambridge 2014.
[2] Giuseppe Zecchini: Il pensiero politico romano, Roma 2018.
Giuseppe Zecchini