Rezension über:

Francesco Santi (a cura di): Lo pseudo Bonaventura. Studi, edizioni e repertorio dei testi e dei manoscritti (= Opa. Opere perdute et anonime (secoli III-XV); 8), Firenze: SISMEL. Edizioni del Galluzzo 2024, XLIII + 1132 S., ISBN 978-88-9290-261-9, EUR 180,00
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Rezension von:
Pietro Delcorno
Università di Bologna
Redaktionelle Betreuung:
Ralf Lützelschwab
Empfohlene Zitierweise:
Pietro Delcorno: Rezension von: Francesco Santi (a cura di): Lo pseudo Bonaventura. Studi, edizioni e repertorio dei testi e dei manoscritti, Firenze: SISMEL. Edizioni del Galluzzo 2024, in: sehepunkte 25 (2025), Nr. 5 [15.05.2025], URL: https://www.sehepunkte.de
/2025/05/39207.html


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Francesco Santi (a cura di): Lo pseudo Bonaventura

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Frutto del lavoro di un'equipe di mediolatinisti coordinati da Francesco Santi, il volume (accessibile anche in Open Access) costituisce un saldo punto di riferimento per chi voglia orientarsi nella selva di testi che nei secoli - "con gradi di intensità diversi e anche una certa estemporaneità" (XX) - sono stati attribuiti a Bonaventura da Bagnoregio (morto nel 1274). Ancor più, questo sarà un imprescindibile compagno di lavoro per chi vorrà studiare tali testi e ragionare su come procedere a una loro edizione critica. Per quanto perfettibile come tutti i repertori, il volume rappresenta un deciso balzo in avanti nella possibilità di affrontare una miriade di testi che si incontrano così di frequente in manoscritti e incunaboli a tema religioso o spirituale.

Dopo un'importante introduzione sul concetto di pseudepigrafia, il volume presenta una corposa sezione di studi ed edizioni critiche (parziali o integrali) di tredici opere pseudo-bonaventuriane (1-754) e l'ampio repertorio dei testi e dei manoscritti curato da Laura Vangone (755-1047), per poi chiudersi con gli indici curati da Marika Tursi (1049-1129), essenziali per navigare la mole di informazioni raccolte.

Nell'introduzione, Francesco Santi sottolinea l'importanza del "proliferante mondo degli anonimi" medievali (XX) e la poliedricità del concetto di pseudepigrafia, straordinariamente vitale e diversificato al suo interno. Santi propone il termine neo-pseudepigrafia per connotare i testi che vengono attribuiti a una serie di autori del XII e XIII secolo che, in diversi contesti, andarono a formare "un punto di riferimento" (XII), reale o immaginario, per gli autori dei secoli successivi. Tra questi autori figurano Anselmo di Canterbury, Alberto Magno, Bernardo di Clairvaux, Tommaso d'Aquino e, appunto, Bonaventura. Quest'ultimo emerge come il vero gigante di questo fenomeno, tanto che il presente repertorio arriva a contare 177 opere pseudepigrafiche per un totale di 1414 manoscritti censiti.

Il rapporto di tali testi con Bonaventura stesso è assai mutevole, così come la frequenza o convinzione con cui nel tempo un'opera gli è stata attribuita. Si va da casi di pseudepigrafia sovrapposta in cui la tradizione assegna la stessa opera a più autori (ad esempio, alcuni manoscritti o edizioni a stampa della versione lunga della Vitis mystica la assegnano a Bernardo) a casi di "pseudepigrafia difensiva", operazione che permette a testi di Pietro Giovanni Olivi di circolare all'ombra del più sicuro nome di Bonaventura. Vi sono poi fenomeni come l'appropriazione e trasformazione di Bonaventura da parte di esponenti della Devotio moderna, là dove Santi sottolinea il "paradosso di come l'adesione intellettuale possa comportare l'adulterazione, nel parziale fraintendimento" (XIX). In riferimento al Quattrocento, si accennano due direzioni di indagine che potranno essere perseguite con frutto: da un lato la "geo-cronologia della pseudepigrafia" e dall'altro come l'instabilità di molti di questi testi sia segno della loro vitalità, rendendoli una preziosa "fonte per la storia sociale" (XVIII). Se da un punto di vista di critica del testo ci si trova davanti, in molti casi, a un vero e proprio "mobile labirinto testuale", l'augurio del curatore è che l'insieme del volume mostri come la vasta area dell'anonimato e della pseudepigrafia sia "luminosa e parlante, brulichio di discorsi ricostruibili" (XXIII), nati all'interno di precisi contesti di produzione e trasformazione di tali testi.

Pur mancando una spiegazione dei criteri di selezione dei tredici casi di studio presentati (probabilmente frutto delle scelte personali degli studiosi coinvolti), essi coprono efficacemente la diversità di testi in questione. Vediamo alcuni esempi, nei limiti di una recensione.

Lo studio della Ars concionandi curato da Davide Obili (29-123), oltre a presentare per la prima volta l'edizione critica della terza sezione dell'opera, analizza con cura la tradizione manoscritta e la fortuna del testo, mettendo in luce come l'assegnazione pseudepigrafica a Bonaventura sia una sorta di caso limite: solo una nota di pieno Trecento aggiunta a un precedente manoscritto e poi recepita dagli editori settecenteschi ha collocato tale testo tra le opere di Bonaventura, mentre l'Ars circola anonima nei manoscritti o, in un caso, con la concorrente attribuzione ad Alberto Magno. Insomma, sostanzialmente nessuno tra XIV e XVII secolo leggeva tale testo pensando fosse di Bonaventura. Se già a inizio Novecento l'opera era considerata pseudepigrafica, la sua disponibilità a stampa le ha dato una notevole visibilità negli studi sulle artes praedicandi: in un certo senso, un errore di attribuzione fecondo.

Nel capitolo dedicato all'Invitatorium ad amorem sancte humilitatis (341-393), Santi dimostra in maniera convincente come uno dei manoscritti, ora ad Oxford, conservi una versione più ampia e migliore rispetto agli altri quattro conosciuti, usati per l'edizione curata da Giuseppe Abate (1964), due dei quali conservavano l'attribuzione a Bonaventura, probabilmente per una certa vicinanza di temi spirituali nel testo. Santi fornisce una nuova e accurata edizione critica, mettendo in luce da un lato le qualità del testo e la sua capacità espressiva (indizi riguardo al profilo culturale dell'anonimo autore, un religioso, forse un frate minore), dall'altro il rapporto di libera e creativa derivazione dai materiali raccolti nella assai diffusa Dieta vel via salutis. Il testo è una piccola gemma nel vivace contesto delle meditazioni di inizio Trecento. Si legga la sezione su come la vita di Gesù sia uno speculum humilitatis, dove la descrizione della fuga in Egitto e della vita disagiata in esilio si avvicina, per tono patetico e centralità degli elementi visivi, a passi delle (probabilmente) coeve e ben più famose Meditationes vitae Christi. Basti menzionare il dettaglio di Maria che ostiatim mendicabat insieme a Gesù o al suo farsi carico (anche economico) della famiglia filando e cucendo, perché - si dice - non risulta che Giuseppe lavorasse in esilio; nel racconto del ritorno dall'Egitto, variando tono, vi è la deliziosa immagine del fanciullo Gesù che gioca camminando davanti alla madre (375).

Non manca un prezioso capitolo (431-498) proprio sulle Meditationes vitae Christi (MVC), forse l'opera pseudo-bonaventuriana per eccellenza, per enorme diffusione e per centralità nel dibattito storiografico (in realtà, nella tradizione manoscritta, solo raramente era attribuita a Bonaventura; 440). Dávid Falvay e Antonio Montefusco condensano in poche e limpide pagine il complesso status quaestionis di questa galassia di testi, richiamando come vi sia un largo consenso (non però unanime) riguardo alla precedenza cronologica del cosiddetto Testo maggiore latino, ormai attribuito con sicurezza a un frate minore toscano di inizio Trecento. Proprio tale testo richiede nuovi studi, perché l'edizione del 1997 nel CCCM presenta problemi inaggirabili, risultando "nociva per la discussione" (443), tanto che la proposta avanzata da questi studiosi (già affiorata nelle discussioni riguardo alle MVC) è quella di ripartire piuttosto dal lavoro di Peltier (1868), "edizione che ancora oggi risulta essere la più affidabile" (432), usata anche qui per dare un campione del testo (prologo e undici capitoli). La recensio codicum che - senza considerare le numerose versioni nei diversi volgari - conta ben 126 manoscritti delle varie versioni e 8 frammenti, rappresenta quindi il punto di ripartenza per chi vorrà impostare l'impresa su solide basi filologiche. [1]

Assai diverso come qualità del testo e attenzione storiografica è il De doctrina religiosorum (DDR), al cui studio si dedica Fabio Mantegazza (173-286). Si tratta infatti di un componimento poetico-didattico sulle corrette forme della vita religiosa, scritto a metà del XIII secolo e trasmesso da una magmatica tradizione manoscritta di almeno 80 codici, fino a un incunabolo stampato a s'Hertogenbosch intorno al 1488/90, in ambienti forse vicini alla Devotio moderna. Come osserva Mantegazza, le "modeste qualità letterarie del poemetto" non hanno impedito una vasta diffusione nel tardo medioevo, spesso privilegiando proprio quelle sezioni che hanno poi attirato "i severi e comprensibili giudizi moderni" (175), come i passi misogini contro i pericoli rappresentati dalle donne; basti qui ricordare (tra i molti) il distico: "Femina preclara facie quasi pestis amara / et quasi caligo, rubigo, mortis origo"; vv. 268-269). La valorizzazione di questo tipo di testi, di livello basso ma spesso pervasivi in alcuni ambienti, è particolarmente importante. Potrà infatti favorire una migliore comprensione degli ambiti di circolazione e delle forme d'uso effettivo, aiutando non poco a cogliere il ruolo di tali opere nel sedimentare un orizzonte di valori e disvalori in quanti venivano formati alla vita religiosa, aprendo così le porte a una storia (anche) sociale di tale tradizione.

Venendo al Repertorio dei testi e dei manoscritti, questo considera 177 testi e li articola in due sezioni, con numerazione continuata. La prima si concentra su 130 opere anonime o di dubbia attribuzione che, per le più svariate ragioni, in un qualunque momento della loro storia sono state attribuite a Bonaventura. La seconda in maniera più stringata scheda ulteriori 47 testi che, pur transitati nell'orbita bonaventuriana, sono ormai attribuiti a un altro autore (ad esempio, le stesse MVC, che oscillano tra Giacomo da San Gimignano e Giovanni de' Calvoli). Particolarmente preziosa risulta la prima sezione, perché riporta anche l'elenco completo dei manoscritti che trasmettono tali testi e sicuramente questa sorta di 'libro nel libro' diventerà per molti un costante compagno di lavoro. Idealmente, sarebbe stato utile indicare i manoscritti anche nella seconda sezione, ma evidentemente la mole di lavoro (già enorme) deve avere scoraggiato tale strada.

Un rilievo mi sembra si possa avanzare riguardo all'eccessiva stringatezza nell'indicare le edizioni in incunabolo, di cui spesso è dato il nudo codice del Gesamtkatalog der Wiegendrucke (GW), senza indicare l'anno e il luogo di stampa (e se vi sia o meno l'attribuzione a Bonaventura), dati invece importanti per capire i contesti di circolazione e la storia di questi testi. Ugualmente, la scelta di escludere dal repertorio il corpus di sermoni pseudepigrafici legati a Bonaventura (cfr. 759), rimandando per questo agli studi di Jacques-Guy Bougerol e Alexander Horowski, è comprensibile, ma non del tutto condivisibile. Nella sezione precedente, tra i casi di studio, Horowski presenta proprio un sermone, il Sermo in vincula sancti Petri (557-580), evitando così che questa importante testualità mediolatina esca completamente dall'orizzonte del volume.

Sarebbe però ingeneroso concentrarsi su quanto eventualmente manca o sarebbe stato possibile fare diversamente, perdendo di vista il dato essenziale: il volume non solo è uno strumento preziosissimo per chiunque lavori sui testi tardomedievali e la loro fortuna, ma fornisce - a un livello pratico - una evidente dimostrazione di come i testi anonimi e pseudepigrafici siano un campo di indagine ricchissimo e complesso. Tale quindi da giustificare una certa difformità nel trattamento dei testi, dovuta alle scelte dei singoli studiosi che hanno partecipato e alla necessità di rispondere alla specifica natura e storia di ciascun testo (ad esempio, l'accurata descrizione dei dieci manoscritti che contengono l'Ars concionandi avrebbe richiesto un libro a sé se applicata al testimoniale di opere come MVC o DDR).

Pur offrendo già una serie di risultati e riflessioni mature, il volume si presenta quindi anzitutto come preziosa mappa per esplorare opere poco o per nulla conosciute, per capire le dinamiche di produzione e circolazione di testi religiosi nel tardo medioevo, per valutare nel complesso il peso e le influenze della successiva tradizione di studi. Insomma, il volume è anche un invito ad allargare l'orizzonte e considerare piste poco esplorate, in un quadro degli studi che sembra pronto per un lavoro serio e rinnovato in questo vasto deposito testuale, ben al di là delle questioni attributive che a lungo avevano tenuto il campo. [2]


Note:

[1] Tra i testimoni delle Meditationes de Passione Christi, una delle versioni delle MVC, mi permetto di segnalare la necessità di aggiungere New Haven, Yale University, Beinecke Library, MS 27, fol. 91r-104v (inizio XV secolo, Inghilterra), donato a Yale nel 1714 da Elihu Yale.

[2] Tra i molti lavori recenti significativi in tale direzione, si vedano ad esempio Bonaventura autore spirituale, a cura di M. Guida e D. Solvi, Firenze 2024 e Antonio Montefusco, Contestazione e pietà: Dissenso, memoria e devozione negli Spirituali francescani (XIII-XIV secolo), Milano 2023.

Pietro Delcorno